Se leggete la parola “influencer”, a cosa pensate?
Immagino che compaia nella vostra mente l’immagine di qualcuno che passa tutto il suo tempo sui social cercando di apparire alla moda, girando video tutto il giorno e guadagnando molti soldi dal posizionamento dei prodotti. Pensando, poi, agli influencer più noti del panorama nazionale e non, pensiamo che stiano facendo un sacco di soldi mentre milioni di fan pendono da ogni loro parola.
Sette anni fa il produttore Farrell convinse milioni di persone in tutto il mondo a girare un fan-video della sua canzone “Happy”. Il brano esplose su Youtube, portale la cui portata ed influenza globale hanno poi contribuito a definire il concetto di “virale”. Oggi le etichette discografiche, gli studi cinematografici, gli artisti ed anche i candidati politici cercano di capitalizzare questo contagio.
La potremmo considerare un po’ come una piccola-grande truffa dei media moderni: o sei un influencer o sei soltanto un numero.
Mi sono sparato in una settimana un fantastico libro di Casey Rae intitolato “William Burroughs e il culto del rock’n’roll”. Burroughs, uno dei più importanti poeti e scrittori del periodo Beat, morì dieci anni prima che Youtube vedesse la luce, ma studiò per tutta la vita il concetto di “influenza”. Nello specifico, il modo in cui il virus della parola ed il suono sono in grado di plasmare il destino dell’umanità.
Lo spiegò lui stesso nel 1986: “La mia teoria generale, fin dal 1971, è che la Parola sia un vero e proprio virus, non riconosciuto come tale avendo raggiunto una condizione in simbiosi relativamente stabile con il suo ospite umano. Vale a dire che il Virus della Parola si è insediato così saldamente all’interno dell’organismo umano, come elemento accettato, che ora può farsi beffe di virus gangster come il vaiolo (e certo, mica esisteva il covid all’epoca!). Ma la Parola possiede senza dubbio la sola e unica caratteristica in grado di identificarla come virus: è un organismo che non ha nessun’altra funzione che non sia quella di replicare se stesso.”
Secondo la visione burroughsiana, dunque, il linguaggio è un meccanismo che appartiene a ciò che lo stesso scrittore definisce controllo, una forza insidiosa che limita la libertà e le potenzialità umane. Le parole creano inneschi mentali che talvolta riusciamo a intuire ma mai a comprendere fino in fondo: questo è l’aspetto che ci rende fortemente influenzabili.
Ci sarebbe un aspetto positivo, tuttavia: se ci pensate bene, il linguaggio può essere utilizzato anche per sbarazzarci di quei concetti preprogrammati che creano corto-circuiti. Burroughs pensava che l’umanità subisse costrizioni imposte da forze esterne ostili che si manifestavano nella realtà grazie a diversi volti del sistema. Lui usava frammenti di voci, suoni, immagini e parole, opportunamente riordinate, per smantellare il Controllo ed i suoi Sistemi.
In seguito molti artisti di vario genere, appartenenti a generazioni diverse, avrebbero utilizzato metodi simili per mettere in difficoltà lo Status Quo, con modalità che Burroughs ai suoi tempi non avrebbe potuto mai immaginare.
E di questo ce ne stiamo però accorgendo noi ora. Eccome se ce ne stiamo accorgendo.
a cura di
Marco Stanzani
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