C’è un nuovo social e si chiama Clubhouse.
Si tratta di una applicazione interamente basata sulla parola. Non esiste alcun post, non esiste alcun commento scritto, non ci sono video.
Su Clubhouse si parla oppure si ascolta oppure tutte e due. E lo si fa all’interno di stanze dove ci sono moderatori, speakers e dei listeners che a loro volta possono alzare la mano e chiedere di parlare oppure esser invitati dai moderatori ad intervenire.
Per interagire su Clubhouse al momento occorrono due condizioni necessarie: possedere un iPhone e ricevere un invito da un utente già registrato.
Nonostante solo gli utenti Apple possano partecipare ai TALK sulla piattaforma, gli iscritti su CLUBHOUSE stanno aumentando sensibilmente giorno dopo giorno.
Un fenomeno in evidente crescita che merita un breve ma sostanziale approfondimento.
Se da una parte abbiamo un modello teorico secondo il quale sarebbero i media a plasmare la società che li utilizza, dall’altra parte abbiamo un ennesimo modello che sostiene che la tecnologia si diffonda solo dove viene accettata, muta e cambia a seconda delle esigenze sociali e culturali che incontra. Questi due modelli in realtà spesso diventano complementari. Mi spiego: esiste una fase tecnologica nella quale si verifica il passaggio da un modulo al successivo e dopo una fase si adattamento e ridefinizione, a cambiare noi stessi arriva proprio lei, la tecnologia.
In tal senso il fenomeno Clubhouse ha due differenti piani di lettura.
Infatti, se da una parte decidiamo di utilizzare l’applicazione all’interno del suo contesto social, appare chiaro che stiamo vivendo un momento tecnologicamente già vissuto. Ma se noi ci concentriamo unicamente sulle peculiarità di Clubhouse, appare evidente quanto questo social sia ancora un work in progress che dovrà subire variazioni per arrivare a raggiungere una utenza massificata. Il successo di Clubhouse si compie attraverso le intercettazioni delle esigenze create dalla tecnologia stessa, sottolineando una parabola già tracciata dai nuovi media e soddisfacendo un bisogno interno alla comunicazione virtuale.
In sostanza, questo nuovo social ci racconta chi siamo ma soprattutto ci dice cosa stiamo diventando.
La fenomenologia dei media digitali mai aveva dato vita ad un media capace di ricondurre le tribù al villaggio della comunicazione orale. Perché in Clubhouse si percepisce la voglia di tornare alla relazione autentica, lontano dall’immaginario iper costruito dei social classici. Si tenta di condurre il virtuale all’interno di un contesto il più reale possibile.
La sensazione è che l’utenza digitale senta il bisogno di percepire la vicinanza delle persone con cui normalmente interagiamo sui social. La voce, in questo senso, è il mezzo primordiale che racconta la voglia di ritornare ad una relazione autentica, senza i canonici filtri imposti di social classici.
Ma se è vero che CLUBHOUSE racconta la necessità di traghettare il virtuale all’interno di un contesto più umano, non posso pensare che questa esigenza rimarrà unicamente confinata all’interno del perimetro di un iPhone.
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