“Questa l’avevo scritta da poco quando suonai a Glastonbury nel 1971”, dice David Bowie mentre la band attacca “Changes”. Era in corso un appuntamento con la storia, quel 25 giugno 2000. Il cantante inglese tornava ad esibirsi al festival dopo quasi trent’anni, questa volta come headliner e non per suonare in piena notte di fronte a 3 mila persone. Nove mesi prima aveva pubblicato “Hours…” inaugurando la sua fase diciamo così neo-classica. E sul Pyramid Stage portò sorprendentemente una carrellata di successi soprattutto anni ’70 e ’80, una scaletta che oggi possiamo ascoltare in versione integrale e ufficiale nel doppio CD “Glastonbury 2000”. Contiene 21 canzoni ed è disponibile anche in 3 LP, in digitale (standard e alta risoluzione) e su 2 CD + DVD, forse la versione più interessante per gli appassionati giacché la BBC filmò il concerto, ma l’artista diede il benestare alla trasmissione di sole cinque canzoni.
“Old-timers to the fore”, titolava il Guardian commentando il ritorno al festival di Bowie, che in realtà aveva “appena” 53 anni. Nel diario che tenne per Time Out, oggi riprodotto nel libretto del CD, il cantante raccontò il percorso di avvicinamento al festival e scrisse che, da buon inglese, era preoccupato anzitutto di come vestirsi. Alla fine scelse una lunga giacca di Alexander McQueen dal motivo floreale, con capigliatura lunga e morbida alla “Hunky dory” o alla “The man who sold the world”. La band che lo accompagnava – Mike Garson alle tastiere, Sterling Campbell alla batteria, il redivivo Earl Slick e Mark Plati alle chitarre, Gail-Ann Dorsey al basso, Holly Palmer e Emm Gryner ai cori – era una magnifica macchina da musica. La registrazione ci restituisce un Bowie in forma accettabile nonostante i problemi di laringite sofferti nei giorni precedenti che indeboliscono molti passaggi. È rilassato e introduce le canzoni con commenti scherzosi e brevi ricordi. Sembra divertirsi.
Con “Outside” e “Earthling”, Bowie aveva cercato di catturare lo spirito dei tempi, fra stridori industrial e ritmi drum & bass sovreccitati. Era interessato al presente. Tempo prima, aveva deciso di non fare più tournée basate sui grandi successi che gli erano venuti a noia. Lo show a Glastonbury fu di tutt’altro segno, quasi una riappropriazione del passato. “Darò loro ciò che voglio”, disse Bowie. Del resto – così ha raccontato il promoter John Giddings – l’organizzatore del festival Michael Eavis era stato invitato a un recente concerto di Bowie ed era uscito a metà dello spettacolo dicendo di non avere assistito a uno show più noioso in vita sua. Per la folla di Glastonbury, si dice 100 mila persone, ci voleva altro e difatti l’80% del repertorio è formato da classici cui si affiancano qualche singolo più recente e cover azzeccate come “Wild is the wind” che apre il concerto col suo melodramma elegante.
Diciotto anni dopo, i suoni di tastiera risultano datati e le parti delle coriste hanno la preminenza tipica di certo pop anni ’80. A volte la band sembra seduta, “Changes” è priva della teatralità che un tempo la caratterizzava, “Stay” è opaca. Gli 8 minuti di “Absolute beginners”, presentata come la canzone anni ’80 preferita dal cantante, sono forse troppi e ci si chiede che c’entri la chitarra flamencata con “Let’s dance”. Però l’introduzione per pianoforte e voce di “Life on Mars?” è impagabile nonostante Bowie non arrivi a certe note, i nove minuti di “Station to station” sono uno degli highlight del concerto, “Hallo spaceboy” dimostra che l’artista aveva ancora cosa da dire negli anni ’90. “Under pressure” è il momento di Dorsey, meglio dell’olandese ubriaca con cui Bowie aveva duettato suo malgrado a Glastonbury 1971. Per chi adora il modo di suonare di Garson, poi, l’esibizione offre momenti impagabili. Chi conosce il terzo CD di “Live at the Beeb” sa cosa aspettarsi: il concerto per la BBC fu registrato due giorni dopo Glastonbury, in un contesto ovviamente più raccolto e controllato.
“Vedere così tante persone che cantavano mi ha quasi sopraffatto”, disse Bowie, che dovette eliminare alcune canzoni dalla scaletta dopo aver saputo della penale di 20 mila sterline che il promoter avrebbe dovuto pagare per ogni minuto di sforamento rispetto alla durata pattuita. Fu un successo. Il mensile Q scrisse di “un monumentale ritorno alle origini”. Per il Mirror, “gli altri grossi artisti lo guardavano a bocca aperta”. “Sarà ricordata come l’occasione in cui Bowie si è guadagnato un rispetto nuovo”, profetizzò il Times. Si calcola che, durante la tre giorni, 10 mila, forse 15 mila persone entrarono senza biglietto. Furono commessi 1300 reati, la maggior parte dei quali furti dalle tende. Gli arresti furono 207. Trentatré persone furono espulse dal sito del festival. Si persero un bel concerto.
“Sarò onesta: davamo David Bowie per scontato in quella mite sera d’estate del 2000”, scrive Caitlin Moran nelle note di copertina. Lei c’era e confessa d’essere stata più eccitata dalla prospettiva di vedere i Basement Jaxx che Bowie. Provate a capirla: era il 2000 e ancora si pensava che il presente fosse più eccitante del passato. Ora che non diamo più Bowie per scontato, ora che manca da quasi tre anni, “Glastonbury 2000” ci sembra un documento imperdibile. Non lo è, ma è pur sempre un concerto simbolo del periodo in cui l’artista decise di riconciliarsi con i grandi show all’aperto e con il vecchio repertorio. Fa rivivere senza filtri lo stupore e la gioia che l’artista stesso provò sul palco riscoprendo l’affetto del pubblico per le sue canzoni. “I feel love!”, disse a un certo punto. Ecco, questo è “Glastonbury 2000”: non un live leggendario, ma la fotografia di un momento in cui si manifesta un atto d’amore e un oggetto a cui destinare il nostro rimpianto.
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