Lo ammetto, scorgere all’orizzonte l’arrivo di un nuovo festival con 30 canzoni scelte da Amadeus (che ha preferito La Sad e Fred De Palma ai Calibro 35 o ai Subsonica) mi ha fatto cadere in uno stato catatonico pari all’entusiasmo di un sabato trascorso all’Ikea.
Ma perché, perché ci ritroviamo a questo punto?
Qualcuno di molto più importante di me aveva detto che “se il presente cerca di giudicare il passato, perderà il futuro”.
Brevemente:
C’era un tempo, potrebbero recitare le Sacre Scritture Fimi, in cui ci si accorse che la chiusura di Napster voluta dalle Major, non aveva arrestato l’emorragia della pirateria, portando i grandi artisti a convincersi che il grosso del “conquibus” non poteva più arrivare dalle vendite dei dischi, quanto piuttosto da una fervida attività live. E mentre Madonna nominava colui che le organizzava i tour come Suo Nuovo Personal Manager, i grandi poli discografici, nel tentativo di salvare la sedia, si affrettavano ad acquistare grandi aziende di Booking. Fu così per Sony che si comprò International Music, o per Warner che entrò in possesso di Friends and Partners. Fu nel 2006 che apparve con tanto di aureola dorata lo spirito santo di Spotify che così si espresse: “In verità in verità vi dico, verrà un tempo in cui sarete liberi dalla pirateria, potrete portarvi in tasca oltre 50 milioni di canzoni senza sentirne il peso, ma se svilupperete 100 milioni di ascolti, non capitalizzerete più di 20mila euro di guadagno”.
NON FATELO !!!
Si affrettarono a dire due leader di due band storiche come Thom Yorke e David Byrne, questa mela ingannatrice altro non è che “l’ultima disperata scoreggia di un elefante”.
Parole grosse, ma cosa intendevano i leader di Radiohead e Talking Heads con questa frase così volgare? Semplice: loro erano semplicemente convinti che questa novità altro non avrebbe prodotto se non il prosciugamento della creatività artistica. Il loro era un tentativo di farci comprendere come l’avvenire roseo che la voce della pubblicità tra le canzoni ci annuncia non si sarebbe mostrato così ineluttabile.
Nel frattempo, narra la storia, è scoppiata una pandemia.
La naturale conseguenza di questo lock down imposto dalle circostanze è stato un arresto di ogni attività live per due anni e così tutti i grandi dinosauri della musica, allo scopo di evitare l’estinzione, hanno accettato di fare dietro front e riaccasarsi in quelle majors che aveva quasi preso a male parole nei primi anni 2000, preferendo anzi fondare le proprie etichette indipendenti.
Ed ora eccoci. Ma che anno sarà per la musica il 2024?
Come dice Giordano Sangiorgi in un recente post: “Intelligenza artificiale, piattaforme di streaming, multinazionali contribuiranno a cancellare tutte le piccole realtà musicali per omologare la musica. Toccherà a noi tentare di fare operazioni di tutela, sviluppo e crescita delle piccole culture”.
Tutto vero, ma nel frattempo facciamocene una ragione: la vecchia carcassa della discografia è riuscita con un colpo di reni a fare quel che non era riuscita a fare ad inizio millennio: riappropriarsi della rete.
La storia di Spotify è quella di un’illusione, la completa realizzazione di una società orizzontale, fatta di pari, che il web doveva realizzare. Sempre citando Yorke, un’entità come “Spotify ha improvvisamente tentato di diventare gatekeeper (guardiano) dell’intero processo (di distribuzione musicale)”, inserendosi all’interno della rete.
Perché, pensateci un attimo, Spotify non produce dischi, non seleziona nuove promesse, non porta avanti nessun tipo di progetto discografico: come sottolinea Damon Krukowski su Pitchfork, è solamente un aggregatore di Capitale, proprio come Pandora o altri servizi simili, l’ennesimo modo di ottenere soldi dai clienti.
Ma non importa.
“Sei un artista emergente? Se vuoi farti conoscere non puoi non essere su Spotify, ma non aspettarti che oltre ad ospitarti ti diamo anche dei soldi”. Echeccavolo.