Dopo mesi di negoziati il Congresso Americano pare aver finalmente accettato lo stanziamento di un pacchetto di svariati trilioni di dollari che serviranno ad aiutare i locali americani ed i luoghi di musica in difficoltà.
Si tratta della legge “Save Our Stages” e darà sollievo alle piccole e grandi sedi che sono state chiuse da marzo 2020 a causa della pandemia.
Qualcosa si sta facendo anche in Italia dove proprio a causa di questa pandemia, è apparso ancora più evidente quanto poco venga riconosciuta come professione quella di musicista, un mestiere costantemente svilito al punto da essere declassato a hobby.
Nell’immaginario collettivo non esistono gli anni di sacrifici, di studio, di costi sostenuti per l’acquisto di strumentazione, per intraprendere un percorso di apprendimento. Per l’opinione comune tutto quel che ruota attorno alla musica appare come fuffa, ma attenzione la colpa è solo nostra.
Si tratta di un problema culturale che nasce all’origine, da quei licei dove la musica, salvo rare eccezioni, è completamente assente, alle elementari viene insegnata poco e male o viene vissuta come momento ludico per fare distrarre gli studenti.
Se la musica già all’origine degli studi viene relegata in secondo piano, ecco spiegato perché i nostri figli, crescendo, ne avranno una bassa concezione al loro ingresso in società.
Per anni lo stato ha considerato i conservatori delle inutili istituzioni dal valore accademico assolutamente nullo.
Solo recentemente, grazie al Decreto Fedeli, i titoli di Alta Formazione Artistica e Musicale sono stati equiparati a quelli universitari, perché la verità è che fino al 2018 se uno studente di pianoforte si era fatto un mazzo tanto per più di dieci anni di studio, comunque avrebbe dovuto mettersi il cuore in pace che il suo titolo non sarebbe mai stato riconosciuto come laurea di primo livello.
Dopo essersi diplomato il musicista classico deve scontrarsi con una serie di problematiche occupazionali che viaggiano di pari passo con la crisi stessa dei teatri, ora divenuta drammatica a causa del covid.
E chi pensa che la musica leggera si trovi in uno stato migliore si sbaglia di grosso. Purtroppo la crisi dell’industria discografica ha creato un appiattimento nel livello di qualità e di opportunità.
Il supporto fisico è praticamente defunto per questo le principali entrate degli artisti sono costituite inequivocabilmente dai concerti. Se questo non era un grosso problema prima della pandemia per gli artisti affermati, lo era già eccome per quelli emergenti, costretti ad una gavetta fatta di esibizioni in locali che preferiscono cover band e che pretendono di “pagarti in visibilità”.
E quando un artista osa proponendo un proprio repertorio, se è bravo, generalmente si sente rivolgere la seguente domanda: “perché non partecipi a un talent?”.
Piccola divagazione, lasciamo stare.
Gran parte degli artisti sono costretti ad arrotondare con altro, principalmente lezioni private di musica. Perché parliamoci chiaro: se un musicista vuole permettersi l’affitto di una sala prove deve necessariamente trovarsi prima un lavoro fuori dal suo campo.
Se un batterista frigge patatine in un fast food non lo fa perché non considera quello del musicista un mestiere, ma perché è la realtà sociale ed economica che lo circonda a non permettergli di farlo. Perciò lo fa perché è costretto a farlo e non ha altra scelta.
Se l’Italia è un Paese in agonia, tutto ciò è dovuto in larga parte all’umiliazione che la cultura subisce da molti decenni.
Occorre tutelare le nostre eccellenze, serve incentivare i giovani artisti e riconoscere le professioni che non sono più considerate tali. Pensate che nel 1700 qualcuno abbia mai chiesto a Vivaldi “Che mestiere fai?”.
Per cui se avremo la fortuna di tornare ad assistere ad eventi di musica dal vivo, non telefonatemi per chiedermi se ho biglietti di ingresso gratuito per il concerto del tal artista.
Poniamo il caso che tu abbia una ferramenta, mi hai forse mai sorpreso a domandarti chiodi in regalo?
Buon 2021 a tutti.