Si sta per chiudere questo 2018 ed io mi accorgo di quanto si sia diventati totalmente dipendenti dall’engagement del web.
Nonostante Spotify si dichiari ancora in perdita, nel 2030 il mercato dello streaming arriverà a toccare quasi 40 miliardi di fatturato (fonte Goldman Sachs). Nel 2019 i dj potranno suonare dalle consolle delle discoteche, tracce musicali scelte direttamente da Soundcloud e così il mito dei fly-case pesanti quanto le dieci tavole della legge, svanirà inesorabilmente. Pare evidente che da Napster in poi, si sia consumata musica solo gratuitamente, prima coi peer-to-peer, ora con le piattaforme di streaming legale che determinano il successo di un artista o meno.
Colonie di manager implorano il curatore musicale di Spotify (che detiene ormai un potere quasi monopolista) affinché inserisca nelle playlist ufficiali i propri artisti, ed è proprio questa parola, playlist, che determina i flussi delle maree discografiche. Tant’è che lo stesso Salmo ha proprio intitolato così il suo super-cliccatissimo album: Playlist.
Certo, se vanno di moda i palloni o le tute sportive di quella marca, cosa c’è di meglio che assoldare colonie di ragazzetti che, sottoposti a turni di lavoro da schiavi, producano a costi davvero bassi prodotti così altamente richiesti?
Ora ad essere richiesti sono gli ascolti, le views, i followers, e allora è normale che esploda il fenomeno delle click farm costituite da colonie di thailandesi, filippini o indiani che lavorano anche 24 ore filate per creare profili utilizzando i nomi americani più comuni, che in pochi secondi diventano like, commenti, views. Questo fenomeno dei numeri “fraudolenti” mi piacerebbe diventasse la vera sfida di questo 2019, anche se temo che piuttosto che riuscire a sgominare queste click farm, sia più semplice riuscire a debellare il mio ricorrente mal di testa del mercoledì.
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