Ed eccomi qui, in questa sala cinematografica ancora deserta nel Lido di Venezia. Ancora non c’è nessuno e quindi posso concedermi il lusso di provare i divani in prima fila destinati alle autorità, ai registi, agli attori e forse anche ai più noti critici cinematografici.
Quella del critico cinematografico è la categoria che mi sono soffermato ad osservare con maggior curiosità in questa mia trasferta al Lido per la proiezione del filmino “La nave sul monte” degli Extraliscio di Elisabetta Sgarbi.
Per una vita mi sono confrontato con critici musicali, ma raramente ho avuto a che fare con quelli cinematografici, una razza a sé stante, spesso vessata e bistrattata dai protagonisti del cinema, ma che io ho trovato in fondo “meno snob e più umana” di quanto mi potessi immaginare.
C’è un vecchio detto che dice: «Chi sa fare fa, chi non sa fare critica». Forse è per questo che chi fa il cinema non ama molto chi ne fa la critica.
Mi ricordo che nell’avvelenata di Guccini si parlava di “Un Bertoncelli (Riccardo, famosissimo critico musicale), un prete che sparava cazzate”. E anche Vasco in “Vado al massimo” parlava di “quello là, che scrive sul giornale” riferendosi a Salvalaggio che criticò la Rai accusandola di ospitare il rocker di Zocca, “un individuo alcolizzato, cocainomane e sballato“. François Truffaut sosteneva che tutti hanno due mestieri: il proprio e quello di critico cinematografico. In effetti scagli la prima pietra chi non si è trovato almeno una volta nella vita a discutere con amici sulla bontà di un film rispetto ad un altro.
Tutti certamente nascono spettatori, ma nessuno nasce critico. La strada del critico cinematografico è un percorso che unisce la passione per il cinema alla passione per la scrittura.
Diceva il Socrate di Platone al suo discepolo Glaucone: «Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sì da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo».
Non pare anche a voi che il filosofo descriva ciò che diverrà un sala cinematografica?
«Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco (…). Pensa di vedere costruito un muricciolo (…). Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine (…). Credi che tali persone possano vedere altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parte della caverna che sta loro di fronte?»
E tra poco in questa caverna entreranno spettatori e critici e lasceranno che alle loro spalle brilli “la luce d’un fuoco”.
Mi pare sia stato Truffaut e stilare i sette vizi capitali della critica. Fu lui certamente a sostenere che il critico cinematografico «si culla nell’ignoranza totale della storia del cinema, altrimenti farebbe film invece di discuterli”.
Eppure io li vedo i critici, li scorgo che attendono di mostrare il green pass prima della proiezione, in rispettosa attesa come si conviene ad un professionista ciclicamente abituato a file da ufficio postale prima che si consumi una nuova visione, siano essi stessi critici teorici che giornalistici. Sono, infatti, giunto ad una ovvia distinzione all’interno del mondo della critica.
Esistono a mio parere due figure ben delineate: quella del critico storico-teorico, ovvero studioso del cinema, e quella del critico giornalistico, ovvero recensore.
Se mi sforzassi di definire la figura del critico cinematografico in genere credo che prenderei in prestito la definizione di Morando Morandini: «Uno spettatore esigente che sa scrivere meglio e che ha più memoria della media dei suoi lettori. Se, per giunta, è anche più intelligente, tanto meglio».
Cari Critici, ora mi sposto e vi lascio spazio sui divani: d’altronde, il mio ruolo è sempre stato quello di restare a margine degli eventi, sempre nel backstage e quasi mai in platea, per poi assalirvi a fine spettacolo per conoscere le vostre opinioni nella speranza di poter contenere eventuali stroncature o “volesse Iddio” alimentare insperate esaltazioni di gaudio.
Non essendo impegnato in prima linea nella scrittura e direzione di alcun film, riscopro qui a Venezia un mio approccio personale verso la figura del critico, certamente di coesione e forte complicità.
Da circa trent’anni si parla di morte della figura del critico, per questo io oggi vi guardo con un atteggiamento quasi paterno. L’impressione che ho da qualche anno è che al pubblico non interessi più gran che il giudizio sul tal film, quanto un elenco delle possibili pellicole disponibili alla visione. Se fosse realmente così, la figura del critico si ridurrebbe a quella di semplice cronista e, in fondo, non pensate anche voi che la questione diverrebbe davvero triste?
a cura di
Marco Stanzani
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